di Arianna Tarquini
I trattamenti di medicina rigenerativa sfruttano elementi derivati dal paziente stesso, per trattare patologie degenerative oppure caratterizzate da perdite di tessuto. In particolare, parte da un concetto semplice, per cui se l’organismo è in grado di riparare autonomamente danni di piccole dimensioni, può essere anche capace quando viene messo nelle condizioni ottimali, di contrastare anche processi patologici più complessi.
L’individuazione degli elementi capaci di promuovere la guarigione del tessuto continua a richiedere molti studi di ricerca di base, che hanno coinvolto sia elementi cellulari che subcellulari. La scoperta di questi elementi tra loro diversi, con proprietà simili e promettenti, ha contribuito alla nascita di molti prodotti commerciali di medicina rigenerativa che differiscono tra loro per piccoli dettagli, e che sono stati applicati a un variegato spettro di patologie diverse, sfruttando metodi di preparazione, somministrazione e analisi non standardizzate.
In tutto questo, le evidenze scientifiche sono state diluite generando molta confusione. Il primo ritrovato della medicina rigenerativa, sia in termini cronologici che per volumi di utilizzo, ad oggi è il plasma ricco di piastrine (Prp), del quale esistono diverse varianti, in presenza o assenza di leucociti, con diverse metodi per l’attivazione, che possono essere utilizzate mediante protocolli differenti per quanto riguarda tempistiche e frequenza delle somministrazioni. In realtà, il Prp sfrutta semplicemente una procedura di centrifugazione a gradiente volta a concentrare le piastrine del sangue periferico in modo che, una volta attivate, possano rilasciare il contenuto dei granuli α, nei quali si trovano molti fattori di crescita che possono favorire la proliferazione cellulare delle cellule residenti nel tessuto danneggiato, la vascolarizzazione e la modulazione dell’infiammazione, come avviene fisiologicamente nel momento in cui ci si procura una ferita e si forma il coagulo.
Risultati evidenti sono stati ottenuti nella chirurgia dentale e maxillo-facciale, dove il Prp viene abitualmente utilizzato per sopperire alla perdita di tessuto osseo, anche in combinazione con biomateriali, per favorire la crescita e l’integrazione degli innesti. Altri risultati positivi sono stati ottenuti nel trattamento di difetti cartilaginei e patologie tendinee.
Una delle critiche che può essere mossa al Prp è quella di non essere plastico, ovvero una volta iniettato ed esaurito il suo contenuto di molecole bio-attive, non può rinnovarsi o adattarsi, nel caso la situazione persista o muti senza portare alla guarigione. Per ottenere un comportamento adattativo di questo genere è necessario utilizzare elementi vitali, in grado di reagire al microambiente in cui si trovano e che siano in grado di rispondere adeguatamente ad esso.
Un altro ritrovato sono le cellule staminali mesenchimali (MSC), che nel corso degli anni hanno dimostrato di poter contribuire alla guarigione dei tessuti sia per differenziamento diretto verso le linee cellulari che sono andate perse durante il danno o la progressione della patologia.
Grazie alla loro azione combinata, queste molecole possono contrastare il microambiente patologico, per esempio in presenza di infiammazione cronica, e ristabilire la corretta omeostasi tissutale, favorendo la guarigione. Inizialmente individuate a livello del midollo osseo, le MSC sono state identificate nella quasi totalità dei distretti corporei, cosa che è sembrata sorprendente fino alla scoperta della loro natura di periciti, ovvero quelle cellule che si localizzano sulla superficie esterna dei vasi sanguigni e sono praticamente ubiquitarie. Questi periciti non rappresentano quindi cellule staminali propriamente dette, ma sono piuttosto cellule in grado di percepire i segnali di danno e attivarsi di conseguenza per migrare nel sito patologico, dove rilasciano le molecole necessarie a mediare il corretto processo riparativo.
Diversi studi che hanno utilizzato le MSC per patologie anche molto differenti, dall’ischemia ai danni renali, fino all’osteoartrosi hanno mostrato che esse sono in grado di dare grandi benefici. Tuttavia, la maggioranza di questi studi ha utilizzato grandi numeri di MSC selezionate ed espanse in laboratorio, pratica che comporta costi molto elevati per la manipolazione delle cellule e per le due sedute chirurgiche necessarie per prelievo e re-impianto.
Nonostante tutto, si è generata molto confusione in tale ambito e da qui è nata l’esigenza di creare un sistema che permettesse di collezionare tutte queste informazioni in modo sinergico, al fine di arrivare ad avere le stesse informazioni per un numero consistente di pazienti. Una raccolta strutturata e standardizzata, che tenga in considerazione non solo le classiche valutazioni clinico-funzionali dei pazienti, ma anche caratteristiche personali, abitudini, stili di vita che in qualche modo potrebbero essere correlati all’efficacia dei trattamenti. È stato sviluppata una piattaforma per la raccolta dei dati, una sorta di “registro 3.0”, automatizzato, che segue e monitora i pazienti da remoto, condivisibile da più centri e che permette l’aggregazione dei dati. Il progetto si chiama Regain.